Ad oggi, quali competenze può utilizzare un’impresa per realizzare e valutare le “buone pratiche” messe in campo?

(riferimento:  SecondoWelfare.it)

 

Profili professionali e competenze specifiche

Per la gestione del benessere in azienda, Regione Lombardia ha codificato nei propri QRSP (Quadro Regionale degli Standard Professionali) tre profili professionali con competenze specifiche che possono essere certificate attraverso percorsi di formazione promossi da enti accreditati e tramite un percorso di valutazione informale.

Fra le figure competenti troviamo il Welfare Manager, il Disability Manager e il Diversity Manager.

 

Il Welfare Manager è un professionista che opera nel campo delle politiche del lavoro progettando, gestendo, monitorando e valutando i programmi di welfare sia a livello aziendale che territoriale. Tale figura svolge azioni di supporto ai responsabili della gestione delle risorse umane in materia di welfare, smart working e conciliazione vita-lavoro anche durante le fasi di negoziazione e contrattazione sindacale.

 

Il Disability Manager è invece il responsabile di tutto il processo di integrazione socio-lavorativa delle persone disabili all’interno delle imprese; si occupa quindi di tutte le fasi di pianificazione, ricerca, selezione, inserimento e mantenimento in azienda, fino allo sviluppo professionale e organizzativo dell’individuo con disabilità.

Il Diversity Manager è infine il responsabile di tutte quell’insieme strutturale di pratiche innovative di gestione delle risorse umane nell’ottica di valorizzazione della diversità di ciascuno, promuovendo la cultura dell’inclusione ai fini strategici dell’impresa.

Vantaggi del Welfare in Azienda

Molto spesso ci viene chiesto a cosa serve il welfare e quali sono i vantaggi per le parti interessate.

La misurazione della catena del valore d’impatto è oggi un tema di grande attualità. E l’analisi dei risultati prodotti va oltre gli aspetti più tangibili e più “monetizzabili”. Si valuta e si misura l’impatto sui familiari, sul territorio e anche sulla società, con metodi molto precisi e utilizzando strumenti di analisi sofisticati.

Leggendo vari report che nel tempo, notiamo, sono sempre più approfonditi e dettagliati da numeri via via più precisi, abbiamo individuato i principali impatti prodotti da iniziative di welfare aziendale:

  1. Per il personale dipendente: risparmio di tempo e denaro, maggior benessere personale, sviluppo di competenze e miglior equilibrio tra vita e lavoro (worklife balance);
  2. Per l’Azienda: maggiore identificazione con l’azienda e i suoi programmi, maggiore produttività, incremento della fidelizzazione e riduzione dell’assenteismo, maggior benessere organizzativo, migliore reputazione dell’azienda;
  3. Per le famiglie: supporto economico, miglioramento dell’assistenza del familiare, aumento delle opportunità per i figli, come istruzione e occupabilità, aumento del benessere familiare;
  4. Per la società ed il territorio: sviluppo economico indotto sul territorio, cittadinanza consapevole, sostegno aggiuntivo al welfare pubblico, riduzione di emissioni ambientali, aumento della fiducia verso il sistema Paese.

Fare welfare di qualità fa bene alle aziende.

Lo dimostrano i risultati del report di impatto presentato in questi giorni da Jointly. Applicare le corrette metodologie di misurazione e di rendicontazione d’impatto sociale sulle azioni di welfare permette alle nostre aziende di comprendere l’impatto delle proprie politiche e di prendere decisioni informate per un futuro sostenibile.

 

Alcuni esempi

Grazie al servizio welfare, per la metà dei collaboratori (50%) migliora la capacità di gestire le energie tra lavoro e famiglia. In famiglia, per i figli aumenta l’autonomia nella vita quotidiana (4,5 in una scala 1-5) e per molti  caregivers (42%) alleggerisce il carico di cura.


Un progetto, denominato PushToOpen dedicato a genitori e figli, non solo ha aumentato l’engagement dei collaboratori (82%) verso la propria azienda ma lo Sroi – il ritorno sociale dell’investimento – è stato di 2,64€ per ogni euro investito. Il progetto infatti ha aumentato la fiducia verso il sistema Paese (40%) e ha ridotto il numero dei ragazzi che non studiano né lavorano.

Ci sono infine i risultati che vengono misurati in relazione a progettualità specifiche, come ad esempio verso le mamme con figli under 15, o per l’intercultura, o per dare un sostegno in situazione di fragilità. In questi, come anche in altri progetti, vengono rilevati aumenti significativi nella capacità dei partecipanti di gestire la vita privata, di gestire il cambiamento o recuperare energie per il lavoro, oppure di migliorare l’ascolto, le capacità relazionali ed empatiche. Per i ragazzi sono sensibilmente migliorate la capacità di essere autonomi, di prendere decisioni e la propensione a viaggiare o ad imparare una lingua.

Inoltre, in quasi tutti i casi, risultano evidenti il risparmio di tempo (l’80% dei collaboratori lo conferma con un recupero quantificato fino a 5 giorni) e un aumento dell’identificazione con l’azienda da 3 fino a 4,3-4,7 in una scala  1-5.

Come misurare l’impatto del Welfare in Azienda

Pillola su: “come misurare l’impatto del welfare in azienda?”.

Cogliamo l’occasione di un recentissimo webinar sull’argomento, per raccogliere in questo breve spazio alcuni spunti di riflessione. Nei prossimi giorni potremo integrare queste informazioni con esempi numerici ed approfondimenti.

 

Prima di rispondere alla domanda introduttiva, dando alcune indicazioni su una possibile metodologia, abbiamo compreso negli ultimi mesi che molte aziende stanno ragionando su un tema centrale: la riorganizzazione del lavoro, che appare sempre più urgente per guardare con fiducia alla prossima ripresa, a fronte delle criticità attuali.

 

C’è quindi un’accelerazione sui fronti dell’organizzazione e della trasformazione del lavoro, che viene ripensato. E un aiuto fondamentale alla risoluzione di queste esigenze viene dal welfare aziendale, al quale vengono dati obiettivi più ampi, che vanno oltre il benessere del dipendente e l’inquadramento all’interno di una diversa politica retributiva. Viene ora valutata e misurata la positività dell’impatto del welfare su tutto “l’ecosistema” azienda-lavoro-famiglia.

 

Si torna quindi a ripensare alle strategie aziendali e agli obiettivi del welfare. Cosa si misura e come si misura il welfare impact?  I metodi sono vari: metodi di processo (ad esempio per la valutazione quali-quantitativa), metodi di impatto e metodi di monetarizzazione. E per proseguire in questo brevissimo esempio, si arriva alla definizione:

  • dei benefici attesi per ogni stakeholder;
  • del perimetro di analisi;
  • dei Kpi (key performance indicator);
  • degli strumenti di raccolta (attraverso survey) e di misurazione dei risultati.

La misurazione d’impatto è un’attività essenziale, da proporre ex-ante e non più solo ex-post, come studio preparatorio alla definizione di nuovi piani di welfare, ma anche per l’aggiornamento dei piani esistenti.

Tra gli studi già realizzati, abbiamo registrato un dato molto interessante in merito all’analisi dell’impatto sociale: ogni euro investito in welfare aziendale produce un valore di ritorno (SROI) pari a 2,64 euro.

Inoltre, c’è il valore percepito dai dipendenti e dai loro familiari, che è molto più alto della spesa effettivamente sostenuta.

 

La task force propone come soluzione il Welfare Aziendale

(Fonte: quotidiano nazionale oggi)

Alla fine di un mese di lavoro, la task force incaricata per trovare soluzioni e proposte alla difficile situazione creatasi con l’emergenza covid, ha presentato (venerdì scorso) un report sull’avanzamento dei lavori.

La task force è divisa in 7 gruppi di lavoro ed è stata rafforzata con cinque presenze femminili.  Sono stati indicati i titoli di quella che, nelle prossime settimane, dovrebbe diventare la relazione sulle esigenze del Paese.

Sul capitolo “famiglia” si parla di incentivare il welfare aziendale e di contrastare la diseguaglianza di genere con la conciliazione dei tempi di vita-lavoro… visto che peggio dell’Italia in questo senso fa solo la Grecia.

E’ un invito molto concreto, che ha trovato nel welfare aziendale non solo una possibile fonte economica aggiuntiva, ma a nostro avviso anche nell’organizzazione dei servizi necessari, collegati tramite apposite convenzioni a centinaia di fornitori, lo strumento per poter erogare quanto richiesto dalle famiglie nel proprio territorio.

Survey su welfare aziendale e responsabilità sociale di fronte al Covid-19

E’ in corso, fino al 7 maggio, la survey di Secondo Welfare sulle buone pratiche adottate dalle aziende a fronte del Covid 19

La ricerca chiede se : “la tua organizzazione ha introdotto misure specifiche di welfare aziendale a sostegno dei lavoratori e della comunità in cui opera o di responsabilità sociale per rafforzare la capacità di risposta del territorio (tramite donazioni, raccolta fondi, e così via)? ”

Se la risposta è sì, si può partecipare alla  “Open Call for Good Practices”.

L’obiettivo è portare alla luce esperienze di organizzazioni che stanno usando il welfare aziendale e/o azioni di responsabilità sociale per limitare l’impatto del Coronavirus sui propri collaboratori, sulle loro famiglie, sui territori e sulle comunità in cui operano.

Ad oggi, sono stati oltre 900 gli accessi al questionario, da 19 regioni (manca il Molise), di centinaia di organizzazioni profit e non profit, pubbliche e private, che nel complesso contano oltre mezzo milione di lavoratori.

Nel mese di maggio verranno analizzati i dati raccolti, che saranno condivisi su ” Percorsi di secondo welfare “.

Questa è l’ultima settimana per partecipare all’indagine, che si chiuderà il prossimo 7 maggio. Il questionario richiede circa 5 minuti.

Per chi vuole partecipare, questo è il link:   https://it.surveymonkey.com/r/CJYVLTY

(Fonte: Secondo Welfare – Seleservice)

Cosa preferiscono gli impiegati di una piccola società di servizi

Abbiamo elaborato un questionario semplificato per chiedere un parere sulle varie soluzioni che rientrano nel cd welfare aziendale e per elaborare una fotografia sintetica, ma concreta, delle preferenze espresse dai dipendenti.

Le risposte, quasi omogenee, ci fanno pensare che il campione possa rappresentare una media attendibile per la categoria del lavoro impiegatizio.

Ma vediamo alcune informazioni generali del gruppo esaminato:

  • maschi 62%  e  femmine 38%
  • Età: over 40 per quasi il 70%
  • numerose le coppie con figli (80%)  e con 1,8 figli :  media alta
  • Quasi tutti conoscono il welfare e sono molto favorevoli.  Nessuno è “non favorevole”
  • Abbiamo chiesto, con riferimento alle varie voci che possono essere incluse in un Piano di Welfare, quali sono le spese annuali. Per le spese dichiarate dai dipendenti, registriamo un forte impatto dei costi per Viaggi (48%), seguiti da Scuola e, a pari merito, da Spese mediche e Palestre/Sport
  • Per i servizi abbiamo fornito un elenco completo. Tra i più richiesti (o i meno) troviamo: viaggi e assicurazioni dove quasi tutti hanno dichiarato di essere interessati, segue ravvicinata tutta l’area dei rimborsi medici, palestre/sport e ingressi cinema/teatro/altro. Buono l’interesse anche per i corsi (in particolare di lingue) e per tutte le spese collegate a scuola e figli.
  • Assolutamente scarso o limitato l’interesse per giornali e riviste, baby sitter, rimborsi per familiari anziani e corsi informatici.
  • Ultimo dato, che riteniamo interessante, è che quasi tutti si dicono disponibili a fare acquisti a proprio carico.

(Fonte: Seleservice)

Il 55% dei lavoratori fruisce di welfare aziendale

(Fonte: Italia Oggi – AssiNews)

È quanto emerge dallo studio curato da Nomisma in collaborazione con Cgil sulla valutazione e l’utilizzo del welfare aziendale da parte dei lavoratori presentato ieri a Milano (16 gennaio 2020) durante il convegno «Il welfare aziendale visto dai lavoratori» presso la Fondazione Stelline.

Il 70% dei lavoratori valuta positivamente il welfare aziendale, ma solo il 55% ne fruisce.

Dalla ricerca, che ha coinvolto un panel di oltre 70 aziende e un campione di 1.822 lavoratori suddivisi in impiegati (49%), operai (45%) e quadri (6%), emerge come più di un terzo degli intervistati sia pienamente consapevole rispetto al tema del welfare aziendale. Il 45% dei lavoratori ha sottolineato di essere stato informato soltanto a grandi linee e solo il 9% per nulla rispetto alle iniziative definite negli accordi aziendali volte a incrementare il benessere del lavoratore e della sua famiglia. Ad essere meno informati rispetto ai servizi offerti risultano essere gli operai. Il 28% di essi dichiara di conoscere poco o nulla riguardo al tema welfare aziendale, contro il 20% degli impiegati e l’8% dei quadri. 

 

Responsabilità di cura: il 35% degli italiani deve fare i conti con una situazione sempre più complessa

Sono le madri-lavoratrici, secondo Istat, ad essere penalizzate perchè spesso sono costrette a rinunciare parzialmente o totalmente al lavoro.

(Fonte: Primo Welfare Famiglia – V.Santoni)

Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica quasi 13 milioni di nostri connazionali tra i 18 e i 64 anni devono gestire responsabilità di cura verso propri familiari. Nello specifico, nel 2018 sono circa 2 milioni e 827mila gli italiani caregiver, cioè che si prendono cura di un parente affetto da malattie gravi e spesso non autosufficiente; sono invece 10 milioni e 564mila le persone con carichi legati alla dimensione della genitorialità.

In totale si parla di circa il 34,6% della popolazione. Tale percentuale non si discosta molto dalla media europea: nell’UE28 sarebbero infatti 106 milioni (34,4%) gli individui a dover affrontare quotidianamente responsabilità di cura. In particolare l’Irlanda è il Paese dove la quota di individui con responsabilità di cura è più alta (quasi il 45% della popolazione); le percentuali più basse (circa il 28%) si trovano invece in Germania e Bulgaria.

L’Istat evidenzia come tali condizioni influenzino in maniera particolare le dinamiche occupazionali. Il report afferma che “essere impegnati in un’attività lavorativa e allo stesso tempo doversi occupare di figli piccoli o parenti non autosufficienti comporta una modulazione dei tempi da dedicare al lavoro e alla famiglia che può riflettersi sulla partecipazione degli individui al mercato del lavoro, soprattutto delle donne, le quali hanno un maggiore carico di tali responsabilità“. 

In questo senso fa riflettere che oltre l’11% delle donne con almeno un figlio non abbia mai lavorato proprio per prendersi cura dei figli: un valore decisamente superiore alla media europea, pari al 3,7%. Nel Mezzogiorno, in particolare, una donna su cinque con almeno un figlio dichiara di non aver mai lavorato proprio a causa delle responsabilità di cura. In questa stessa area del Paese si registra anche la quota più alta di donne che dichiarano di non lavorare per motivi non legati alla cura dei figli (12,1% rispetto al 6,3% della media italiana e al 4,2% della media europea).
(Indagine ISTAT : “Conciliazione tra Lavoro e Famiglia“)

Le maggiori difficoltà riguarderebbero l’orario di lavoro troppo lungo, l’organizzazione di turni e il lavoro nel fine settimana, l’impegno e la fatica, i tempi legati agli spostamenti.

Come affrontare la situazione?

Alla luce di queste statistiche, sembra cruciale la realizzazione di azioni adeguate, anzitutto attraverso misure politiche strutturali che superino l’attuale sistema fondato sui bonus e che favoriscano una maggiore equità dei ruoli (ad esempio investendo sul congedo di paternità).

Un altro fronte su cui invece qualcosa sembra muoversi è quello del welfare aziendale – e nello specifico quelle azioni destinate alle spesa per il sostegno alla genitorialità e alla cura di familiari non autosufficienti – e delle azioni legate alla flessibilità organizzativa (smart working, flessibilità oraria in entrata e uscita, congedi parentali e familiari extra, disbrigo pratiche, ecc.) sembra possano essere cruciali per i lavoratori italiani che si trovano a dover gestire i citati oneri di cura.

Reti e Accordi – per un Welfare inclusivo e territoriale

Segnaliamo un incontro che si terrà a Torino in data 28 gennaio pv. parte del progetto: “Mutualismo, innovazione e coesione sociale, promosso da Solidea Mutuo Soccorso del Sociale, Regione Piemonte e Secondo Welfare.

Scopo del seminario è fornire le coordinate del welfare aziendale in Italia, riflettere sulle opportunità e sulle criticità che presenta, prendendo in considerazione le più recenti indagini riguardanti la diffusione nel nostro Paese.

Il forte ancoraggio territoriale delle nostre aziende e la possibilità di attivare accordi e convenzioni specifiche con una rete multi-servizi, propongono di ampliare l’analisi e realizzare un focus sul tema del welfare aziendale territoriale.

28 gennaio 2020 – ore 9-13

Cecchi Point – Via Cecchi, 17 Torino

Per iscrizioni: www.mutuosoccorsosolidea.org/secondowelfareperprimi/iscrizioni

SANITA’ MALATA – 500mila italiani non hanno i soldi per le medicine

Ogni persona in Italia spende in media 816 euro all’anno per curarsi, mentre la fascia più povera ha un budget di appena 128 euro all’anno. Questo dato emerge dal 7o rapporto dell’Osservatorio sulla Povertà Sanitaria (Fonte Leggo – 5 dicembre 2019).

Nel 2019  oltre 470mila italiani hanno visto nella farmacia un luogo al di fuori delle proprie possibilità economiche e hanno tagliato le spese sanitarie.

Di conseguenza, le richieste agli enti di assistenza sono aumentate del 4,8% rispetto al 2018. Tra i più richiesti sono i farmaci per il tratto alimentare e metabolico, per l’apparato muscolo scheletrico, per quello respiratorio e per il sistema nervoso.

La prevenzione è il primo costo ad essere tagliato. Questo comporta che le famiglie con minori possibilità economiche siano costrette a spendere in farmaci non compresi dal Servizio sanitario nazionale il 65% del proprio budget sanitario, mentre le famiglie che possono effettuare più controlli e misure preventive spendono in medicinali il 42% delle loro spese mediche.

In questo quadro poi, le famiglie con figli minorenni risultano le più penalizzate.

Il Rapporto sottolinea che i servizi odontoiatrici sono i più emblematici. In questa Italia divisa in fasce più povere c’è chi spende solo 2,19 euro al mese in media per le cure dentarie, contro i 32 euro mensili medi per le altre famiglie.